Su Abattoir: mia nonna. Una riflessione a tutto tondo sul disagio dell’anzianità

Firmata da Noemi Venturella su Abattoir una riflessione sul disaglio dell’anzianità che fa riflettere… e che invitiamo a leggere:

Una delle cose più importanti da sapere di me è che io vivo con i miei nonni da quando ho 12 anni e che, anche prima, loro erano per me dei punti di riferimento fondamentali. Tipo che, mentre mettevo i primi denti da latte, mia nonna mi ha parlato di galateo, di come stare a tavola, di quanto fosse importante nell’ordine: tenere i gomiti giù, non succhiare mentre mangi col cucchiaio, strofinarsi bene sotto la doccia, parlare bene in italiano, truccarsi sempre alla mattina e mettersi il profumo, lavarsi prima di andare a letto (pettinata ai capelli compresa), salutare tutti, anche i cattivi, perché “il saluto è degli angeli”, cercare di essere buona, e mille altre cose così.

Mia nonna si chiama Rita. Ha fatto 5 figli mentre lavorava al ristorante con mio nonno, è quasi diplomata (mi ha parlato spesso del suo sogno di insegnare) e mi ha sempre detto che “una donna deve lavorare e farsi avanti”. Ogni volta che a scuola facevo un tema lei leggeva la brutta copia (gliela lasciavo in cucina, accanto ai fornelli) e mi diceva cosa ne pensava. Era sempre molto contenta di come scrivevo e mi faceva sentire brava e importante. Mi faceva sentire con un futuro. Da lei ho imparato tutto: come si sta con gli altri, i miei valori, ad esempio “non buttare le cose per terra”; lei mi ha donato la voglia di lavorare e di affermarmi. E anche se dice “pissicologia” e quando raccontai che volevo fare la psicologa mi disse: “ma chi, l’elettroshock?!?”, è lei (e non altri che lei) che mi ha trasmesso l’importanza di guardare gli Altri e me stessa prima degli altri. “Una deve pensare sempre a se stessa”, mi rimproverava quando mi arrabbiavo con qualcun altro e non pensavo a cosa potevo aver combinato io. 

Oggi che ha 84 anni, mia nonna a tavola succhia dal cucchiaio e le secca andare dal parrucchiere, anche se ci ha sempre molto tenuto; devo costringerla a fare la spesa, a cambiarsi i vestiti e ad alzarsi dal letto; devo ricordarle di prendere le medicine e cercare di non farle dare da mangiare al gatto 8 volte al giorno (in media). Eppure qualche mese fa di sera era più vispa e abbiamo cucinato insieme della zucchina. Non importava quando sarebbe stata mangiata, importava che era con me e che aveva voglia di fare qualcosa, invece che annoiarsi a letto. Perché in città agli anziani restano solo 2 cose: il letto e la tv. E così mia nonna, una che “in tierra un ci pusava”, una che puliva casa sua e dei suoi figli ogni giorno, che andava a lavoro al ristorante a Monreale anche due volte al giorno, ora vive così: sdraiata, annoiata, piena di dubbi e di smemorie. Mi chiede ogni giorno dove vado, io rispondo: “A lavoro!”, e lei esclama: “Perché, lavori? E che lavoro fai?”; allora io glieli elenco tutti e lei sgrana gli occhi e mi dice: “Davvero?!? Mi fa piacere!!!”. Ogni giorno. Ogni tanto mi chiama pure Frances, come mia madre che non c’è più, e io non me la sento di ricordarle che mi chiamo Noemi. Fino a qualche mese fa ogni tanto si metteva sul divano. Fino a 6 mesi fa qualche volta andavamo fuori per una passeggiata o a mangiare la pizza. Fino a 1 anno fa ogni tanto guidava e fino a 1 anno e mezzo fa andava ancora a lavorare al ristorante come cassiera.
“Normale”, “normalità”, dice qualcuno per giustificarsi. Ma io so che mia nonna è peggiorata perché ha smesso di esercitare le sue abilità. Perché è rimasta isolata. Perché, anche se l’ho suggerito, nessuno mai l’ha accompagnata a comprare il pane, le ha lasciato preparare le minestre che le venivano così bene né le ha chiesto cosa voleva cucinare e mangiare per pranzo.
L’altra sera tardi, dopo avermi salutato e dopo aver scambiato qualche parola, è caduta e ha sbattuto la testa. L’ho alzata e ho cercato di non piangere, le ho messo il ghiaccio in testa come faceva lei con me; lei era spaventata e stringeva la mano di mio nonno. Mi sono commossa, non ci ho dormito; il giorno dopo le ho portato un dolce a colazione.
Mia nonna è una donna che ha viaggiato tanto; ha avuto molti amici ed anche moltissime collane, che usava tutte; il rossetto rosso fuoco l’ha sempre in borsa. Se vedesse come l’hanno minimizzata, confinata, colludendo con la sua artrosi, li prenderebbe a calci a tutti.

Perché oggi anziani = Medicine e immobilismo. Moltissime medicine e nessuna stimolazione. E ovviamente un medico inetto che non capisce cosa è la geriatria, nonostante il 90% dei suoi pazienti siano grandi anziani; un medico che quando, alle prime avvisaglie di demenza senile, ho suggerito l’inserimento in qualche gruppo di sostegno/riabilitazione per anziani, ha sbarrato gli occhi: “Tu sei Satana!” o “Psicologa ciarlatana illusa del cazzo!” avrà pensato, mentre io volevo dargli un pugno in quel suo faccione ortodosso sbigottito e fargli ingoiare sana quella laurea inutile che si ritrova.
Parlo così, da innamorata sconsolata, preoccupata, triste. Ma io so che c’è una teoria del disuso, ho provato a spiegare che il nostro cervello è plastico, che, a qualsiasi età, se una funzione si inceppa ma ci sono degli stimoli, si sviluppano abilità compensatorie, che non è vero che il decadimento è ovvio! Siamo noi che non sappiamo adeguarci a loro e vederne le risorse! Ho provato a parlare dell’importanza di tenerla attiva, sveglia, vigile; di parlarle, di non lasciarla diventare apatica e allettata. “È normale”, invece mi veniva ri-detto.
Io, mentre me lo dicono, penso agli umarells, a quelle nonnine che fino a 100 anni fanno delle buonissime lenticchie come le faceva mia nonna 1 anno fa, prima che qualcuno le togliesse con miope gentilezza il mestolo di mano. Penso ai paesi in cui le donnone coi polpaccioni vanno ogni giorno a comprarsi il pane e poi restano davanti alle persiane a guardare il mondo, a dispensare consigli ed a parlare con le amiche. L’altro giorno a Gangi una signora anziana mi ha spiegato come si faceva il pane; odorava di vecchio, ma voleva parlare e io l’ho ascoltata. Penso a dimensioni in cui i figli non fanno visite di cortesia e non si prendono solo cura del corpo, ma si documentano, acquisiscono un pensiero complesso e non medicalista e capiscono che il nostro cervello è un organo che va nutrito, e non solo imbottito di pillole multicolor. Penso all’oggi, al suo modo di non dare spazio a chi invecchia. …Io per prima cerco di lavorare e di “farmi avanti”, come lei mi ha insegnato; così a casa non ci sono mai, a volte dormo fuori nel tentativo di rendermi indipendente, di conquistare il distacco; ma mi sento in incredibile colpa. Faccio ciò che posso. Tipo riordinare il frigo o fare la spesa, quando lei non mi dice che spende troppo e taglia tutto ciò che ho scritto, ché tanto poi mio nonno le compra i calamari congelati e glieli fa fritti quasi ogni sera, da masticare lentamente con accanto insalatina assammarata d’olio e l’immancabile Floriovo.

Oggi che tutto è veloce, competitivo, performativo, la lenta mano di mia nonna che mi afferra la testa per baciarmi mi ferisce, perché mi fa una rabbia incredibile che una vita di impegni, sacrifici e desideri debba finire in un letto senza alcun potere sociale per l’ignoranza di questo 2016 di vecchi, ma anti-anziano.
Non vorrei che mia nonna facesse parte di quella fascia di soggetti socialmente deboli che non si sa dove mettere, se non nella categoria dello “svantaggio sociale”. Vorrei che le nostre comunità fossero attrezzate a migliorare con competenza la qualità della vita delle nostre persone importanti e non ci costringessero invece ad arrenderci alla loro marginalizzazione, resa, off.
Vorrei. Ma non posso. Se non dando il mio contributo ad esempio con questo progetto che racconta anche di lei e che spero prima poi vedrà la luce …Le storie sono quelle della sua vita, con cui forse riesco a renderle un piccolo onore. E a restituire alla mia collettività l’importanza di far sì che le cose vadano diversamente.

Perché il futuro è nel passato e noi siamo loro. Io sono lei. I miei figli saranno me e lei. E (anche se per proteggerci ce lo dimentichiamo) vale per tutti.